chiamano un servo per nome, nessuno di voi risponda, altrimenti non ci
saranno più limiti alla vostra oppressione. E i padroni stessi
ammettono che, se un servitore viene quando è chiamato, basta».
Li
sentite? I nostri padroni ci stanno chiamando. Ci stanno dicendo che i
prossimi 13 e 14 aprile, per l’ennesima volta, si voterà. Dovremo
andare alle urne a mettere una croce sulle nostre aspirazioni,
delegandole ad uno dei tanti candidati che ci verranno propinati. Uno
qualsiasi, a nostra scelta, tanto non c’è differenza. Chiunque verrà
eletto non cambierà nulla della nostra miserabile esistenza su questa
terra sempre più inquinata, avvelenata, corrosa. Continueremo a tirare
a campare, impoveriti dei nostri sogni e desideri, stremati da una
giornata di lavoro, spenti davanti a un televisore acceso. Nel corso
degli anni i governi si sono succeduti l’uno dopo l’altro, l’uno dopo
l’altro hanno fatto promesse più o meno mirabolanti, l’uno dopo l’altro
non le hanno mantenute. Mentre chi abbiamo mandato a scaldare gli
scranni del Parlamento gode di immensi privilegi ed ha accumulato
sostanziose fortune per sé e la sua famiglia, a noi è rimasto solo di
morire in una qualsiasi ThyssenKrupp o di soffocare sommersi dalla
spazzatura.
Sappiamo bene cosa ci aspetta nelle prossime
settimane. Un’estenuante campagna elettorale condotta da vecchi e
giovani saltimbanchi della politica, pronti a tutte le lusinghe e
raggiri pur di estorcerci il voto. Guardateli come si stanno
travestendo, assumendo nuovi nomi per rendersi più presentabili.
Ascoltateli come si riempiono la bocca di Popolo e Democrazia,
queste allucinazioni collettive che vengono evocate di continuo solo
per attirare i gonzi. Eppure, ormai lo hanno capito anche i bambini:
fra destra e sinistra, fra un Berlusconi e un Veltroni, non ci sono
sostanziali differenze. Sono come la Coca e la Pepsi, che si contendono
il mercato offrendo il medesimo prodotto, limitandosi a confezionarlo
in maniera diversa. I rispettivi piazzisti possono anche litigare,
insultarsi, ricorrere a colpi bassi, ma la comune identità di obiettivi
resta inalterata. Sentiamoli sulle questioni più controverse del
momento: tutti sono favorevoli alle missioni militari all’estero,
all’alta velocità in Val Susa, all’ampliamento della base USA di
Vicenza, ai centri di permanenza temporanea, alle “leggi scellerate”
sulla sicurezza… né si può dire che si differenzino granché per le loro
ricette in materia economica. Le prospettive sono talmente
intercambiabili da spingerli a scagliarsi reciproche accuse di plagio.
Di
questo sistema sociale che, di emergenza in emergenza, di catastrofe in
catastrofe, ci ha condotti sull’orlo del baratro, nessuno mette in
discussione il SE, ma solo il COME. Quale che sia il governo in carica,
i programmi restano immutati; devono solo decidere se realizzarli con
il bastone o con la carota. Questa uniformità nell’abiezione, questa
assoluta mancanza di alternative, ci ricorda qualcosa. I vecchi regimi
totalitari si caratterizzavano per il dominio assoluto di un unico
partito, che costringeva i partiti avversari all’esilio o alla
clandestinità. Ma quei partiti erano considerati avversari proprio
perché portatori di valori diversi e opposti. Oggi viviamo in una sorta
di totalitarismo democratico che tollera l’esistenza di più partiti, ma
solo perché giurano fedeltà ad un medesimo modo di vita sottomesso alla
dittatura del mercato. Le odierne diatribe fra le varie cricche
politiche assomigliano alle dispute che un tempo dilaniavano le diverse
“correnti” all’interno del partito unico; ma se gli orrori dell’antico
totalitarismo hanno provocato dissidenza e ribellione, quelli
perpetrati ai giorni nostri hanno potuto contare sull’obbedienza. Fino
ad ora?
Una cosa è certa. Mai come in questo momento il sonno
degli abitanti del Palazzo è tormentato dallo spettro della cosiddetta
antipolitica. Da molto tempo non serpeggiava tanta preoccupazione:
caduti nella polvere della storia i grandi ideali che una volta
spingevano a lottare per la trasformazione sociale, nelle alte sfere si
era diffusa la sciocca convinzione che la pace sociale fosse un dato di
fatto acquisito, quasi una caratteristica biologica di questa società.
Così non è. Solo che oggi il potere non deve più difendersi
dall’utopia, sepolta ancora sotto una montagna di becero realismo e di
pragmatismo bottegaio, bensì da un avversario che nell’ultimo periodo è
montato inarrestabile: il disgusto.
Quel disgusto che prende alla bocca dello stomaco sempre più persone
nel vedere l’ennesimo candidato parlamentare, nell’udire l’ennesima
promessa elettorale. Un tale disgusto da rendere sordi alle sirene
della propaganda politica.
Molti segnali indicano che
l’antipolitica si sta diffondendo ovunque. Sotto una forma ambigua, è
vero, che non si fonda su una radicale critica della delega e
dell’esercizio del potere. Si tratta perciò di un rifiuto dei partiti
esistenti per lo più istintivo e inconsapevole, che trova sostenitori
soprattutto fra chi è in cerca di nuovi partiti, fra chi vuole dare
vita a una nuova politica — fra chi intende per lo più rinnovare una
classe dirigente ormai screditata e decrepita. Ma sarebbe comunque
stolto, da parte di accaniti astensionisti quali noi siamo, non
soffiare su questo fuoco — che è sempre stato il nostro
elemento — solo perché ad alimentarlo attualmente ci sono alcune anime
belle del cittadinismo. Anche se si tratta di un astensionismo
occasionale, come quello oggi invocato in una Val Susa delusa dal
governo Prodi che appena ieri aveva contribuito ad eleggere.
Quella
che si sta prospettando è un’occasione piuttosto singolare. Una volta
tanto, la classica obiezione con cui è sempre stato liquidato
l’astensionismo viene meno in partenza. Infatti oggi nessuno, nemmeno
il più ottuso dei militanti di sinistra, può seriamente accusare
l’astensionismo di «fare il gioco della reazione». Un po’ perché
decenni di «mali minori» e «compromessi tattici» hanno reso evidente
che la reazione è trasversale e va dall’estrema destra fino all’estrema
sinistra. Un po’ perché mai come in queste elezioni l’esito finale
sembra scontato, mai come ora la destra non ha bisogno
dell’astensionismo per far perdere voti alla sinistra. Se due anni fa
la prospettiva di un governo di centro-sinistra che ponesse fine al
regime di Berlusconi è riuscita ad affollare le urne, oggi non c’è
ragione alcuna che possa giustificare il voto. Anzi, la decomposizione
della politica è talmente palese da consentirci di rinfacciare ai
nostri critici la loro stessa accusa: chi vota fa il gioco della reazione.
Il centro-sinistra non ha grandi speranze di vincere e comunque ha già
dimostrato di essere del tutto uguale al centro-destra. Quanto alla
cosidetta “sinistra radicale”, può vantare ancor meno speranze di
successo elettorale con la sua collaborazione di sponda alle più infami
politiche del governo Prodi.
Illustri politologi, venuti in
soccorso di una classe politica in agonia, non mancano di far notare
come l’astensionismo in sé non modifichi nulla dell’assetto
istituzionale. Qualunque sia il numero dei votanti, chi vince le
elezioni va a governare: quindi, a che pro astenersi? Gli esempi degli
Stati Uniti o della Svizzera, paesi dove va a votare un quarto circa
della popolazione adulta, sono indicativi. Ma questo genere di
considerazioni, per quanto piene di ragionevolezza, trascurano
intenzionalmente un aspetto fondamentale. Mentre in quei paesi l’alto
astensionismo è frutto di un’indifferenza ormai normalizzata in
consuetudine, in Italia rappresenterebbe una manifestazione di protesta
impossibile da ignorare.
Cosa accadrebbe se il numero degli astenuti fosse superiore a quello dei votanti?
Del
resto, se un eventuale alto tasso astensionista fosse davvero un
fattore irrilevante, perché tanto affanno nel condannarlo? In realtà,
sarebbe impossibile non tenere conto del significato di un massiccio
astensionismo: la plateale delegittimazione del governo eletto.
Il trionfo dell’astensionismo costituirebbe un’arma formidabile da
usare contro il prossimo governo, qualsiasi esso fosse. Se poi
riuscisse addirittura a sfondare la quota del 50% degli aventi diritto
al voto, l’annunciata vittoria della destra si sgretolerebbe
irrimediabilmente.
La menzogna democratica si basa sul consenso.
Per imporre la propria volontà, chi governa sbandiera la vittoria
ottenuta in un gioco elettorale a cui ha partecipato la maggioranza
della popolazione. Ma se questo gioco venisse snobbato dalla
maggioranza della popolazione, allora il risultato finale non potrebbe
che essere derisorio. Questo mancato riconoscimento anticipato non
impedirebbe l’insediamento del nuovo governo, ovviamente, ma darebbe
forza ad ogni futura contestazione.
Insomma, mai come in
occasione delle prossime elezioni il germe dell’astensionismo può
trovare un terreno fertile su cui attecchire: un motivo in più per
intervenire e ribadire ancora una volta le nostre idee in proposito.
Ecco perché vogliamo rispolverare la vecchia idea di uno sciopero elettorale generale.
Se di fronte ai soprusi e all’arroganza degli industriali i lavoratori
possono ricorrere ad una o più giornate di sciopero, perché ciò non
dovrebbe accadere anche per protestare contro i soprusi e l’arroganza
dei politici? Disertiamo i seggi elettorali così come si disertano i
posti di lavoro. Uno sciopero che deve essere lanciato in tutto il
paese, per superare quei localismi (Val Susa, Vicenza, Campania) che
vorrebbero giustificarlo solo contro singole cattive amministrazioni.
Uno sciopero che invita a svuotare i seggi, per non avallare il
salvagente offerto alla politica dalle liste civiche. E, soprattutto,
uno sciopero che non avanza rivendicazioni specifiche, che non si
limita a dire no a Tizio o a Caio, a questo o a quel progetto, ma che
sfida l’intero ordine politico: CHE SE NE VADANO TUTTI, di destra e di
sinistra, vecchi e giovani, corrotti e rispettosi della legge!
A
scanso di equivoci, vogliamo chiarire che non siamo interessati a
indire una qualche assemblea permanente sull’argomento, né a costituire
fronti più o meno uniti di lotta astensionista. Non abbiamo alcuna
intenzione di colmare, in nome di necessità strategiche, le distanze
che separano le varie componenti del movimento: abbiamo troppo a cuore
i nostri amori e i nostri odii per sospenderli anche solo
momentaneamente. Non abbiamo linee d’azione da far seguire, né patti da
far sottoscrivere. Al contrario, ci piacerebbe provare a mettere in
pratica fin da subito un’azione antipolitica che — proprio in quanto tale
— rifiuti esplicitamente la tirannia del numero, così come
l’autoreferenzialità. La nostra proposta a chi condividesse le nostre
intenzioni è semplicemente questa: invitare allo sciopero elettorale generale attuando un boicottaggio sistematico della prossima campagna elettorale.
Molestare tutti i politici che nelle prossime settimane verranno ad
infestare le piazze delle nostre città. Rendere loro la vita
impossibile mettendoli alla berlina in tutte le maniere. Seppellire di
ridicolo ogni aspirante parlamentare. Bollare col marchio dell’infamia
ogni forma di politica. Non ci sono limiti per realizzare questa opera
meritoria. Si può agire da soli o accompagnati, di giorno o di notte.
Come meglio si preferisce. I mezzi a disposizione della fantasia di
ciascuno di noi sono infiniti. Una rapida occhiata a chi ci ha
preceduto su questa strada è indicativa: c’è chi ha candidato un asino
conducendolo per le strade della città a ricevere l’applauso del
pubblico, c’è chi ha oscurato la pubblicità elettorale con un manifesto
invitante alla scheda nera, c’è chi si è dedicato alla chimica per
mandare in fumo le schede elettorali, c’è chi ha deturnato i manifesti
affissi dai vari partiti, c’è chi ha organizzato esilaranti comizi di
finti candidati, c’è chi ha contestato rumorosamente le parate degli
aspiranti parlamentari, c’è chi ha sabotato appuntamenti
propagandistici con telefonate minatorie, c’è chi si è intrufolato nei
dibattiti politici per sottolinearne le menzogne e le contraddizioni,
c’è chi ha divulgato scandali e malefatte dei nostri sedicenti
rappresentanti, ecc. ecc.: non ci sono limiti se non quelli della
nostra immaginazione.
Come stimolo iniziale, mettiamo a
disposizione quanto abbiamo realizzato saccheggiando il ricco arsenale
dell’astensionismo sovversivo. Si tratta di spunti rigorosamente
anonimi, per evitare di cadere in quell’autopromozione che è uno dei
tratti più odiosi della politica. Chi li condividesse e volesse
diffonderli, può scaricarli e riprodurli sotto forma di manifesti,
volantini, adesivi. L’auspicio è che chiunque è interessato ad
aggravare la crisi in cui versa la politica faccia altrettanto,
realizzando idee e materiale astensionisti e mettendoli a disposizione
di tutti.
Per porre fine all’oppressione in cui vegetiamo è
indispensabile iniziare col non rispondere alla chiamata dei nostri
padroni. Abbiamo un paio di mesi di tempo per spargere la voce fra i
nostri compagni di sventura, proponendo uno sforzo minimo ma dalle
enormi potenzialità.